Il Santo

SanGerardo1-1140x500La vita di San Gerardo Maiella

Gerardo nasce il 6 aprile 1726 a Muro Lucano (PZ), da Domenico Maiella e Benedetta Galella. Una famiglia di indubbio spessore di vita umana e cristiana, ma povera.

La povertà segnerà la vita di Gerardo che, proprio quando si faceva più sentire, lo portava nella cappella della Vergine a Capodigiano. Qui Gerardo incontrava «il Figlio di quella bella Signora» che spesso si staccava dalle ginocchia della Mamma per donare al piccolo ami­co un panino bianco. Il fatto del pane bianco si ripeté più volte, «per molto tempo». Solo più tardi, da religioso, Gerardo dirà a sua sorella Brigida: «Ora so che quel fanciullo che mi regalava quel pane era lo stesso Gesù».

Il dono del pane bianco lo aveva indotto a scoprire un altro pane, anch’esso bianco, benché più piccolo. Lo scorgeva in chiesa, alla messa, quando i fedeli si accostavano alla balaustra. Scopre subito che si trattava di Gesù. A otto anni si presenta dinanzi al prete per ricevere Gesù, ma fu presto rimandato a sedere. Tornando a casa, nella sua stanzetta, accadde qualcosa di straordinario: il prete aveva detto no, ma Gesù avrebbe risposto sì al suo piccolo amico. Di notte gli inviò gli inviò l’Arcangelo Michele a portargli l’Eucarestia.

Nella vita del piccolo Gerardo, non mancherà l’esperienza lavorativa. Monsignor Albini cercava, da tempo, un domestico. Il suo carattere, a volte forte e severo, scoraggiava quanti si presentavano per servirlo. Solo Gerardo riuscì a resistere a servizio del prelato perché desiderava vivere l’esperienza del sacrificio per imitare il Crocifisso.

Mentre era a servizio del Monsignore accadde un nuovo prodigio. Recato al pozzo per attingere acqua, cade dalle mani di Gerardo la chiave della casa del monsignore. Si reca in chiesa, prende la statuetta di Gesù Bambino, la porta al pozzo, la lega al posto del secchio ed ordina: «Va’ giù, e riportami la chiave!». Gesù obbedisce a Gerardo, e torna con la chiave in mano.

Un altro lavoro che occupò il tempo di Gerardo fu quello di sarto. Divenne noto come «il sarto fate voi», per la sua basse pretese di profitto.

Il sarto fate voi.

 Il tempo che dedicava al lavoro, tuttavia, era ben scarso: le ore le trascorreva più in chiesa che in bottega. Doveva farsi violenza per strapparsi dal suo Gesù, «prigioniero» del tabernacolo. Una volta dal tabernacolo uscì una voce misteriosa di dolce rimprovero: «Pazzerello!». E Gerardo spontaneo: «Più pazzo siete voi, Signore, che per amore ve ne state prigioniero nel tabernacolo».

Pazzia d’amore che si manifestò in altra circostanza. La terza domenica di maggio, a Muro, si preparava la solenne processione della statua dell’Immacolata. Gli occhi estatici di Gerardo erano puntati sulla dolce immagine. Improvvisamente, egli saltò sulla pedana del trono, si tolse l’anello che aveva al dito e lo infilò al dito della Vergine, esclamando ad alta voce: «Mi sono fidanzato alla Madonna!».

Ai primi di agosto 1748 Gerardo conosce due religiosi reden­toristi. I Redentoristi erano stati ideati da Alfonso Maria de Liguori nel 1732 a Scala. La Congregazione nascente avrebbe dovuto avere come scopo la cura delle anime più abbandonate, prive di qualsiasi soccorso spirituale. A Muro Lucano, i due redentoristi, si imbatterono in un giovane alto e gracile, dalla testa grossa e dagli occhi profondi, che lavorava nella sua bottega di sarto. Quel giovane, contro qualsiasi previsione umana, un giorno sarebbe stato redentorista.

Il 13 aprile 1749 alcuni Missionari Redentoristi intrapresero nella cittadina lucana una sacra missione. Era l’ora della definitiva chiamata di Gerardo. L’ideale di santità dei redentoristi era il suo ideale: sentì che quella era la sua strada, la sua vocazione. La sua richiesta ufficiale di seguire i redentoristi trovò presto un ostacolo: la sua gracile costituzione fisica. Padre Paolo Cafaro lo fissò attentamente e fu inesorabile nel giudizio: «La nostra vita non è per te».

Anche mamma Benedetta era contraria alla decisione del figlio e conoscendo bene la testardaggine del figlio, lo serrò in casa il giorno della partenza dei missionari. Poteva una porta chiusa fermare la volontà di Dio?

Le campane di tutte le chiese suonavano festose nel rivolge saluto del popolo di Muro ai redentoristi che partivano. La gente accorreva sulle vie per chiedere benedizioni e preghiere. Solo in casa, recluso, Gerardo desiderava ardentemente poter accorrere dai redentoristi. Due obbedienze combattevano nel suo animo: alla madre o a Dio? Presto rivelò la sua scelta. Prese un pezzo di carta e scrisse: «Mamma, perdonami. Non pensare a me. Vado a farmi santo!». E preso un lenzuolo si calò dal davanzale per seguire i missionari.

L’ingresso nei redentoristi

 Gerardo entra nei Redentoristi, e da redentorista la sua vita cambiò. Entrato nella casa di Deliceto, in Puglia, vero eremitaggio, a Gerardo parve di entrare nell’anticamera del paradiso.

L’accoglienza che gli fu riservata non fu incoraggiante. Il Padre D’Antonio, che reggeva quella comunità, lo mise alla prova. Al bosco, alla cucina, al refettorio, al forno, alle costruzioni, alle pulizie, dovunque si faticasse, era presente Gerardo. Un grande miracolo di volontà e di energia, durato sei mesi, quanti bastarono per far cambiare opinione ai confratelli sul suo conto.

Anche nella vita spirituale Gerardo si dimostrò subito disponibile a sacrifici e rinunce, e a quanti gli domandavano il perché di tutti quei sacrifici rispondeva: «Una volta sola ho l‘occasione di farmi santo; se la perdo, la perdo per sempre».

Il padre Antonio Tannoia, suo biografo e contemporaneo, racconta che “si faceva stendere su una croce, a somiglianza di Gesù; che nella settimana santa si straziava con cardi, catenelle, discipline a sangue, veglie notturne e digiuni; che la sera di giovedì pareva entrare in un’agonia interna misteriosa e torturante. La sua cella, con un saccone riempito di sassi per giaciglio e teschi di morto intorno, era il suo paradiso, dove si flagellava con punte di ferro e dormiva fasciato da cilizi”. Tutto questo eroismo ha una spiegazione: Gerardo aveva indirizzato la sua vita su questa massima: «Amare assai Iddio, unito sempre a Dio. Far tutto per Dio. Amare tutto per Dio. Conformarmi sempre al suo santo volere. Patire assai per Dio. È pena infinita patire; e non patire per Dio. Patire tutto e patirlo per Dio, è niente». Ormai Gerardo non aveva più una volontà propria, in tutto si sforzava di cercare e di fare solo la volontà di Dio.

Per obbedienza ai superiori Gerardo parte, in direzione di Lacedonia. Il tempo era piovoso, ormai si era fatto tardi, ma Gerardo è fermo a partire per non venire meno all’obbedienza. Sulle rive dell’Ofanto straripato l’attende l’insidia del nemico. All’improvviso un’ombra… il cavallo sobbalza… e una voce da paura che lo minaccia: «Ora non puoi più niente. Sei nelle mie mani». «Ah, sei tu, bestia d’inferno! Nel nome della Trinità ti ordino di prendere le briglie e guidarmi fino a Lacedonia». Ruggendo e scornato, il demonio condusse il suo fiero domatore fino all’ingresso del paese. A Deliceto un gentiluomo, che all’apparenza sembra di tutto rispetto e devozione, ma che nell’intimo nasconde passioni e peccati, viene avvicinato da Gerardo che smaschera il suo perbenismo. Alla difesa strenua della sua condotta, il Santo oppone un elenco interminabile di misfatti, fino a fargli vedere il demonio pronto a trascinarlo all’inferno. A un altro che nascondeva i peccati nella confessione toccò la stessa spaventosa visione. Leggeva nelle coscienze, riusciva a prevedere i pericoli, interveniva con la forza dello Spirito Santo.

Gerardo in Puglia

 Nella primavera del 1753 lo troviamo a Corato, in Puglia. Sarà ospite della famiglia Papaleo, ma Gerardo non la conosce, né sa dove abita. Come sempre si affida al buon Dio e al suo… cavallo. Infatti, abbandona le briglie e lascia che la bestia trovi la casa. Incredibile. Il cavallo, dopo aver attraversato diversi vicoli, si ferma davanti ad una porta. Gerardo domanda: «Don Felice Papaleo?». «Sì, abita qui».

Due fatti in particolare caratterizzarono il suo soggiorno coratino. Intervenne con coraggio per fare murare una finestra del monastero delle Domenicane, occasione di distrazione continua per le religiose, e liberò con un segno di croce un campo infestato da topi, che costituivano la disperazione dei contadini.

 Messaggero di pace, trovava modo di penetrare nella coscienza dei più duri. A Castelgrande, in Basilicata, riuscì a pacificare due famiglie in lotta per l’uccisione di un giovane. Dopo aver parlato di perdono per ore e notata la durezza di cuore delle parti, Gerardo ordinò: «O per amore, o per forza, voi dovete perdonare. Prima venni qui mandato da altri, ora è Dio che mi manda». Gli astanti lo guardavano cominciando a tremare. Egli si inginocchiò, trasse dalla cintola il suo Crocifisso, lo pose in terra, e disse al gruppo familiare: «Avanti, calpestatelo! Non c’è via di mezzo: o perdonare, o calpestare Gesù; perché conservare odio è come mettersi sotto i piedi Colui che ha comandato il perdono». La vittoria fu sua; i nemici si abbracciarono.

Impegnato a tempo pieno nel servizio del Signore, sempre obbediente ai Superiori, riusciva a conservare lo spirito della preghiera anche nei lavori più umili e impegnativi. Era convinto di quanto si era proposto: «Da ora metti giudizio e pensa che non ti faresti santo con lo stare solo in continua orazione e contemplazione. La migliore orazione è stare come piace a Dio: essere attento al divino volere, cioè in continui impieghi per Dio. Veramente quanto si fa per Dio solo, tutto è orazione». A questo suo proposito egli rispose non soltanto con l’osservanza dei tre voti di consacrazione religiosa, povertà, castità e obbedienza, e col voto di perseveranza nella Congregazione, ma aggiungendone un quinto, quello «di scegliere il più perfetto in ogni cosa davanti a Dio». Diceva: «Che bella cosa essere tutto di Dio! Lo sanno quelle benedette e beate anime che lo provano: provatelo voi pure e poi me lo direte. Che serve amare il mondo, se non per provare continuamente triboli ed amarezze? Or via, non ci vuol altro; il vostro cuore, da oggi avanti, ha da essere tutto di Dio ed in esso non ci ha da abitare altro che Dio solo; e quando vedete che ci vuole entrare qualche altra passione o altra cosa che non è di Dio, dite fra voi stesso: Il mio cuore è preso, se l’ha pigliato Dio, il mio caro». E Dio, da parte sua, rispondeva con i prodigi alla generosità del suo servo. «Signore, tu operi molte cose per mezzo di me peccatore; ma poi, perché le fai sapere a tutti quanti?», lamentava Gerardo la fama che la sua santità diffondeva dovunque passava.

L’umiltà di Gerardo

Ma fu la prova di una calunnia atroce, che lo vide mortificato e castigato dal fondatore sant’Alfonso, a fornire a Gerardo l’occasione di esprimere la sua umiltà e la capacità di silenzio sofferto e offerto. Il desiderio di vedere amato «il suo caro Dio» gli comunicava un particolare zelo per le anime consacrate. Quando notava un germe di vocazione monastica in qualche giovanetta, si prodigava a coltivarlo, impegnandosi perfino nel procurarle la dote per l’ingresso in monastero.

Tra le Benedettine di Corato, le Carmelitane di Ripacandida, le Redentoriste di Foggia si trovavano ragazze guidate dallo zelo di Gerardo. Tra queste ultime, una certa Nerea Caggiano. Non era fatta per il monastero: resistette tre settimane, e furono molte. Bisognava giustificare il suo ritorno in famiglia, a Lacedonia: le suore… e quel benedetto fratello Gerardo… L’insinuazione fece nascere il sospetto; la gelosia completò l’iniquo disegno. Nerea accusava Gerardo di tenerezza per una sua coetanea, Nicoletta Cappucci. Anche don Benigno Benincasa credette a Nerea.

Una lettera raggiunse sant’Alfonso. «Non è possibile!», esclamò il fondatore. Però la controfirma dell’amico sacerdote Benincasa faceva fede. Davanti a sant’Alfonso, Gerardo restò estasiato: «Padre, voi avete una faccia di paradiso!», gli disse, ma non sapeva cosa lo aspettava. Alla lettura della lettera, segue un grande silenzio. «Non ti dimetto, ma ti proibisco di parlare e di scrivere a chiunque, e ti proibisco di ricevere l’Eucaristia». Gerardo tace ancora.

A Ciorani, nella casa di noviziato, dove fu inviato per punizione, tutti guardavano «il colpevole», e si meravigliavano per la sua imperturbabilità. La vera sofferenza è restare senza l’Eucaristia. Un sacerdote lo invita a servire la messa: «No, padre – dice Gerardo – vi strapperei l’Ostia dalle mani!». Qualcuno, conoscendolo bene, lo invita a manifestare la sua innocenza al fondatore: «Si muoia sotto il torchio della volontà di Dio – risponde Gerardo – io mi sono affidato ad un avvocato più potente». Ed ecco la verità. Nerea Caggiano e don Benigno Benincasa riscrivono a sant’Alfonso. La prima, tormentata dai rimorsi per aver calunniato un santo, il secondo, confuso per la sua imprudenza.

Questa volta è il fondatore a chiedere scusa all’umile fratello: «Ma perché non mi hai parlato?». «Padre mio, come avrei potuto farlo? La regola non ammette che ci scusiamo davanti ai Superiori». Sant’Alfonso, che non era uno sprovveduto, comprese che stava trattando con un eccezionale eroe di santità.

Alla morte di Gerardo sarà lo stesso fondatore a ordinare di raccogliere notizie sulla vita e le virtù del Maiella.

gli anni di Materdomini

 Nel mese di giugno del 1754 il Santo viene inviato a Materdomini. Sant’Alfonso, inviandolo a Materdomini, pensò di fargli dimenticare i giorni tristi della «calunnia».

Qui Gerardo trovò un cantiere di lavoro che completava la fabbrica del collegio, e insieme religiosi e laici, ritirati in esercizi spirituali. Il superiore, padre Gaspare Caione, trovò subito l’impiego a fratello Gerardo: gli consegnò le chiavi della portineria. «Queste chiavi devono aprirmi le porte del Paradiso», profetizzò Gerardo. E Materdomini divenne presto un faro di fede e di carità. Correvano per ascoltare la sua voce, perché aveva «una bocca di Paradiso», che consolava e infondeva speranza; correvano sacerdoti e gentiluomini per consigli e preghiere; correvano soprattutto i poveri. Come il Maestro, passava facendo del bene. «La carità si deve fare sempre», esclamava, privando se stesso e la comunità per dare ai poveri. In tutto ciò che faceva, Gerardo si sforzava sempre e solo di fare la volontà di Dio. Nella sua preghiera diceva: «Mio caro ed unico amor mio e vero Dio, oggi e per sempre mi rassegno alla vostra divina volontà; e così in tutte le tentazioni e tribolaziòni dirò: Fiat voluntas tua. Terrò sempre gli occhi al cielo per adorare le vostre divine mani che spargono su di me gemme preziose del suo divino volere».

Sotto il torrido sole d’agosto del 1755 Gerardo era in cammino per le aride e polverose vie, lungo la Valle del Sele per raccogliere fondi alle costruende casa e chiesa di Materdomini. Pallido e malandato come sempre, non lamentava i suoi malanni, anzi vi scherzava per non destare apprensione. Al medico Nicola Santorelli Gerardo aveva detto: «Non lo sai che burlando burlando quest’anno me ne muoio tisico?».

Tornando a Materdomini, al padre Caione che vedendolo arso dalla febbre non poté trattenere le lacrime, disse: «Padre mio, è volontà di Dio; perciò state allegramente, perché la divina volontà deve farsi sempre allegramente».

E ancora a padre Caione diceva: «Padre mio, io mi figuro che questo letto sia la volontà di Dio, e che io vi stia inchiodato come se stessi inchiodato alla medesima volontà di Dio: anzi mi figuro io e la volontà di Dio siamo diventati la stessa cosa». Ecco un breve testamento pronunziato davanti a Cristo viatico: «Mio Dio, voi sapete che quanto ho fatto e detto, tutto l’ho fatto e detto per gloria vostra. Muoio contento, nella speranza di aver cercato solo la vostra gloria e la vostra santissima volontà». Ma le ultime ore del crocifisso con Cristo non erano senza sofferenze. Il dolore e il lamento rassegnato del Figlio di Dio riecheggiavano sulle labbra morenti dell’uomo: «Signore, aiutatemi in questo purgatorio in cui mi avete posto!… Sto sempre dentro le piaghe di Gesù Cristo, e le piaghe di Gesù Cristo stanno dentro di me!… Patisco continuamente le pene e i dolori della passione di Gesù Cristo!… Patisco assai, ma tutto è poco, o mio Dio, per voi che moriste per me!». Le ultime parole udite furono: «Mio Dio, mi pento… Voglio morire per fare la vostra volontà!». Aveva desiderato morire abbandonato da tutti, e l’aveva ottenuto. Per una casuale coincidenza il confratello che lo assisteva s’era allontanato per prendere dell’acqua da lui richiesta. Gli altri di comunità non prevedevano imminente la fine. Quando il fratello ritornò con l’acqua, Gerardo boccheggiava, piegato su un fianco. Era l’una e mezza di notte del 16 ottobre 1755.

San Gerardo Maiella, Missionario Redentorista, è invocato in tutto il mondo come il Santo delle mamme e dei bambini.

 

(Sintesi elaborata dalla “Vita di San Gerardo” presente sul sito ufficiale del Santuario di San Gerardo Maiella in Materdomini)